La prima luce è nei miei occhi. Fuori di me, è ancora buio. Ma la luce d’autunno di un pomeriggio così, e dopo due giorni di pioggia diritta e profonda, beh quella è la luce che ho nei miei occhi. Ieri è ancora oggi, e oggi spero sia domani. È il colore. È la strada che sale e sfocia nel sentiero di sassi e di erba. È la bastionata rocciosa che, come una grande nave di secoli fa, è diretta chissà dove e senza un carico, per cercare i tesori dall’altra parte del mondo. E se lo sguardo prova ad arrivare lassù, in fondo, dove già si è insinuato decine di altre volte, mi pare di sentire il brivido che scuote un uomo quando arriva alla fine della Terra.

Davide SapienzaChe potere ha questa catena montuosa ingigantita dalla sua sacra presenza nella mia vita quotidiana… I suoi abitanti, gli esseri umani che si muovono alle sue pendici, gli animali che la percorrono secondo rotte che a volte riusciamo a comprendere e altre semplicemente ci lasciano stupiti: tutto questo è in suo potere, non in mio e ciò mi rasserena, mi fa sentire piccolo e leggero.

È sempre la prima luce. Quando piove come nei giorni d’autunno la senti palpitare abbozzolata nella grande nuvola che fodera l’aria tra lei e il cielo: la Presolana vive di cielo, ma in quelle ore viene incapsulata e diventa come una navicella spaziale; io sono sicuro che compie un viaggio interstellare, altrimenti come potrebbe portarci – ogni volta – tutto questo bene e questa bellezza, visto che i suoi sentieri non si spostano da dove sono e che ora, qui, dentro i miei occhi ne sto seguendo proprio uno? Nella prima luce del dormiveglia posso sfuggire alle regole fisiche e dunque io sono ancora ieri, proprio perché io sono già oggi e anche domani. Sono contento perché ho scelto di seguire rotte conosciute, tanto ci pensava il cielo a dare risalto alla Terra di Presolana, durante il cammino, e io potevo concentrarmi solo sulla profondità del mio sentire.

Linee di neve fresca, dove lasciare un’impronta, pochi centimetri che potevo evitare ma invece no, tutto ciò era la cosa giusta per sentirsi appena creati in una terra nuova, oltre il mondo conosciuto, dentro un abbraccio invisibile ma saldo. È lì che ho pensato ancora una volta – dunque le forme che vedo sono un’illusione, perché dentro di me cambiano sempre. Sono forme conosciute perché si rapportano al mio corpo che sale, attraversa e discende; il mio corpo è una forma conosciuta a me e agli altri, perché espressa dalla terra madre. Ma come cambia questo corpo, così cambia ciò che vede: per forza deve essere così e anche se chi ama sentirsi al sicuro, protetto dalla camicia di forza del raziocinio, non capirebbe mai quello che adesso dialoga dentro me e inizierebbe a dare spiegazioni numeriche, beh io preferisco essere alfa, e proseguire nel mio cammino, perché una tana non è un punto d’arrivo, ma la casa del mio segreto.

Sfilando accanto ai Cassinelli ho alzato il capo e quello che ho visto non l’avevo mai percepito così, tanto da chiedermi – ma dove eri stato, le mille altre volte? Ho pensato al bivio, Valle dell’Ombra o Calvario, due nomi rituali che testimoniano una cultura di sacrificio timore e reverenza, proporzioni bibliche per l’uomo che un tempo affrontò queste pendici. Quel bivio lo conosco benissimo, eppure ogni volta provo il brivido di un dubbio, credo sia un beneficio per tenermi coi piedi ben saldi a terra. Procedere con quelle scarpe marroni di autunno in pelle nabuk, mi fa pensare che i miei piedi sono rivestiti dal dono di animali che proprio in questi alpeggi trascorrono i loro mesi di pascolo, che rende loro dignità e vita. Io li ringrazio tutti e mi sforzo di credere che possa bastare, per rivestire questi passi con il loro sacrificio. Ma chissà…

La valle dell’Ombra ha uno spirito nascosto in una ripida, netta facciata di pietra che scende da sudovest e si rivolge a nord. Lì accanto sui prati che precipitano vidi i miei primi animali delle alte terre, era novembre anche allora, nel secolo scorso, nel millennio di prima. Allora pensai che finalmente ero stato accolto in questa loro regione, il loro paese, la Presolana. Erano stambecchi o camosci? Questo non saprei dirlo oggi, ma ricordo quelle figure ferme a guardare, attente e sicure di sè. L’umiltà che provai fu uno dei semi che lentamente e a fatica sono riuscito a fare crescere per sconfiggere tanta arroganza dentro di me. Poi un giorno ho fissato lo sguardo su quella lastra di pietra alta decine di metri. Da lì esce un magma di messaggi della terra di Presolana, perché lì nei tempi antichi è accaduto qualcosa di fondamentale che ha dato quella forma particolare al massiccio delle Corzene. Non so se voglio sapere cosa dicono i geologi, mi è bastato esserne attratto tutte le volte che l’occhio ha osservato, salendo a piedi: se dovessi dare una spiegazione con i nomi e i numeri dell’uomo, perderei l’orizzonte che si crea dentro di me grazie a quel piccolo paesaggio, un orizzonte ogni volta diverso che mi racconta una storia passo dopo passo, sguardo dopo sguardo. Un giorno arriverà anche l’ultima visione e chissà se saremo arrivati alla fine della narrazione. Credo di no, credo che come tutti i racconti più belli, resterà in sospeso, un finale tronco. Non ci sarà una morale e non avrà voluto insegnarmi nulla: semplicemente mi accompagna e io sento la sua voce.

Le tracce di sentiero su in alto verso Pozzera sono davvero affascinanti, come è possibile che ogni volta non riesco a decifrarle semplicemente perché lì la mia bussola impazzisce e si indecide, ogni direzione mi attrae, il bivacco sistemato su un colle a duemilacinquanta metri, la pozza che stamane nel dormiveglia è ancora gelata, come ieri quando l’ho osservata, e infine tutte quelle ondulazioni e l’immensità di un mondo tutto da esplorare, ancora… Quante domande, risalendo in Presolana per girare intorno a Corzene. La sua cima è lassù e io invece mi siedo a tirare le stringhe del nabuk che cammina, mi preparo a tagliare l’universo del cuore di roccia dall’alto, osservo le guglie incerte ma ferme, i canaloni ripidi e silenti, ritrovo l’erba alta e grossa della conca che vedo ogni giorno da casa e da qui io vedo casa, e allora penso che ho due case, che nello stesso giorno quante volte – come ieri che è oggi e domani – ho potuto provare la vastità di una dimora all’aperto e una al chiuso, entrambe capaci di vedersi e osservarsi, con me che in mezzo percorrevo lo spazio aperto? Sta lì in quel cammino tutto quello che mi è accaduto, l’orizzonte partorito da qualcosa solo in apparenza lassù a impedire la visuale: se quel lassù non fosse stato lì, non sarei uscito di casa per salire a guardare l’orizzonte. La prima luce me lo ha restituito intatto, le nuvole la luce del tramonto il marrone della terra il bianco della neve il silenzio della meraviglia la solitudine della scelta il desiderio di raccontarlo la voglia di abbracciare chi amo come ogni altro giorno il bisogno di vivere la necessità di morire e rinascere.

Giù, nella conca è un teatro di autunno pronto ormai per la neve. La pioggia ha consolidato i sassi e i ghiaioni, poi il bosco e il colle Presolana e quell’immensità di segreti nascosti tra le rocce e le conifere, animali in ascolto, forse in visione, i miei passi sicuri nel nabuk e infine una creatura che balza dalle Corzenine, ma non saprò mai chi era, perché era impossibile capirlo. Un bel dono anche oggi, e pensandoci bene, quale sforzo mi è stato chiesto per avere tutto questo? Semplicemente quello di essere un uomo in cammino.

 

 

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Questo breve “racconto emotivo” è stato scritto dopo un’escursione in Presolana, montagna sacra per Davide Sapienza e luogo alle cui pendici vive da molti anni. È stato letto in pubblico una sola volta, alla presentazione ufficiale di Scrivere la natura lo scorso 16 novembre 2012 al Palamonti di Bergamo, come esempio utile a fare comprendere alcuni suggerimenti presenti nel volume scritto con Franco Michieli e pubblicato nella collana Scritture creative.